La Cina vicina e la Cina lontana

La Cina oggi: la più agguerrita delle tigri asiatiche…. anche la mia città natale, ormai per quanto riguarda le attività commerciali, bar, ristoranti, negozi che vendono di tutto e di più – rigorosamente made in Cina – ha perso la sua identità antropologica, culturale, economica. Altro che Padania, dialetto, tradizioni; altro che Italia, bel Paese, in cui “il sì suona”; la lingua italiana diverrà una lingua morta, come il latino.

Io stessa, da quasi vent’anni, vado a mangiare in un modesto ristorante gestito da una famiglia cinese in cui, per dirla alla popolana, si mangia bene e si spende poco; la cucina è la tradizionale casalinga italiana; di cinese si mangiano solo spaghetti di riso o spaghetti di soia alla piastra, ma bisogna ordinarli extra menù.

I mercati rionali sono straboccanti di mercanzia cinese: vestiario, scarpe, telerie, oggettistica per la casa, cosmetici, pelletterie, cianfrusaglie di tutti i tipi; magari le bancarelle sono gestite da Italiani, qualche Indiano,  soprattutto ormai da Nordafricani, ma sulla provenienza della merce non ci sono alternative.

Adesso va l’etichetta “made in Italy”, cioè merce prodotta nei laboratori cinesi più o meno legali a Prato e un po’ dappertutto, dove i lavoratori vengono supersfruttati, mangiano e dormono dentro i capannoni, lavorando 12, 15 ore al giorno, secondo il modello dell’organizzazione del lavoro della madrepatria.  Anche nel mio quartiere, qualche anno fa, fu scoperto, per caso, un laboratorio di pelletteria clandestino, che segregava tre o quattro famiglie di immigrati clandestini con figli piccoli, che vivevano come sepolti vivi, lavorando giorno e notte.  Non so come sia finita.

Ebbene sì, compro anche cinese perchè i prezzi sono alla portata delle  mie possibilità economiche di oggi; non ho grandi esigenze di “immagine” e poi mi piace andare al mercato tutti i sabati a comperare qualcosina di nuovo.

E, come se non bastasse, mio marito tre anni fa, sulle strisce pedonali sotto casa, con il nostro cagnolino, è stato investito da una automobilista cinese;  grazie al suo angelo custode, se l’è cavata con 30 giorni di prognosi  e l’auto della signora era in regola con l’assicurazione.

La Cina, grande potenza mondiale, fa paura a tutti ormai, Stati Uniti compresi;  da quando è entrata nel WTO, cioè nell’Organizzazione Mondiale del commercio, ha invaso i Paesi occidentali con le sue merci a prezzi bassissimi, prodotte da qualche miliardo di lavoratori che costano circa 20 volte meno rispetto agli Europei o agli Americani, senza alcun vincolo di tutela sindacale, ambientale e di salute pubblica, da capitalismo selvaggio vero e proprio, per intenderci, come fu agli albori dell’era della industrializzazione in Europa nei secoli scorsi:  il modello capitalistico privato o pubblico è sempre il medesimo.

Ciò, naturalmente ha provocato il crollo delle industrie manufatturierenel mondo occidentale con la conseguente caduta del PIL, disoccupazione generalizzata, riduzione dei consumi delle famiglie, aumento della povertà, tanto che ormai la gente non ha più nemmeno i soldi per comperare le mercanzie cinesi, per poco che costino.  Il PIL cinese, che fino a qualche anno fa era a due cifre, si è dimezzato e la crisi di sovrapproduzione sta martellando anche in Cina che, tuttavia,  è pur sempre la grande competitrice delle altre  potenze mondiali, gli USA in primis, per le tecnologie più avanzate energetiche, cibernetiche, spaziali, finalizzate anche al proprio sistema di sicurezza militare.

Tutto ciò è stato voluto, programmato dai “padroni del mondo”, l’élite mondiale del potere; non faccio nomi, ma si sa di chi stia parlando. E’ stata una strategia giusta, sbagliata, ha perseguito i suoi obiettivi dichiarati, o occulti,  è stata la creazione dell’apprendista stregone poi sfuggito di mano, è possibile regolarla, è irreversibile, quale possibile sbocco potrà avere?  Non ci è dato sapere… “ai posteri l’ardua sentenza…”!  Ora è così, la Cina è arrivata nelle nostre case!

Il mio intento però non è quello di disquisire sulla  politica economica, sulla globalizzazione, sulle Borse, sull’Alta finanza transnazionale, bensì quello di riandare con la memoria e con il cuore ad un viaggio da  esploratori alla scoperta della grande “casa Cina.”

Fu nel mese di maggio del 1976, sembra preistoria:  Mao Tse Tung, il Grande Timoniere,   era ancora Presidente; la Banda dei quattro, con la Rivoluzione Culturale e le Guardie Rosse imperversava; era già in fase terminale, come il potere carismatico di Mao che sarebbe definitivamente tramontato con la sua  morte il mese di settembre dello stesso anno. I Quattro furono subito destituiti, incriminati, condannati e dimenticati, tanto che ormai, per saperne qualcosa, bisogna consultare Wikipedia.La leadership fu presa da Deng Xiaoping che cambiò letteralmente il corso della politica economica e sociale, ponendo le basi della trasformazione della Cina da arretrato Paese contadino a grande potenza mondiale quale è oggi.  Sua l’enunciazione programmatica: “Non importa di che colore sia il gatto purchè prenda il topo”.

Ero interessata alla scena del mondo, alle ideologie marxiste, alla contrapposizione fra la via sovietica e la via cinese, mi tenevo aggiornata con varie letture, tuttavia non fui spinta a quel viaggio dall’ideale, o dal desiderio di fare la conoscenza dal vivo di quel Paese che già era un grande protagonista e che propagandava in occidente  la sua visione del mondo, a suon di slogan e di parole d’ordine, tramite il famoso Libretto Rosso, testo sacro del Maoismo, che infiammava tanto gli animi di tutti gli aspiranti rivoluzionari di quegli anni.

Attraversavo un periodo no, come si dice, non mi andava bene niente, ero depressa; una fase di “buia notte dell’anima”; avrei potuto anche morire  e non ricordo come sia venuta in contatto con questa opportunità…. il primo viaggio in Cina, organizzato da un’associazione di industriali, aperto anche ad altre persone, ed infatti eravamo in quattro o cinque comuni mortali.

Un evento eccezionale, se si considera che solo da qualche anno c’era stato l’ inizio di una timida apertura diplomatica detta del “Ping pong” fra gli Stati Uniti di Nixon e quindi l’Occidente,  e la Repubblica popolare cinese di Mao Tse Tung.

Il viaggio costava 1.800.000 lire,  che costituivano tutto il mio capitale; ma piuttosto che morire valeva la pena che tentassi un’esperienza nuova, forse rivitalizzante!

Il responsabile del viaggio convocò una, forse due riunioni con i partecipanti nella sede dell’associazione per informare sull’organizzazione, sul programma, su quello che avremmo incontrato e come avremmo dovuto comportarci.

Tassativo per le signore, le mogli degli imprenditori, denominate per l’occasione “casalinghe” il consiglio di non portare gioielli, di non truccarsi, soprattutto di non mettere lo smalto  alle unghie, vestire abiti modesti, niente minigonne, niente tacchi alti.

Obiezione di qualcuna: “Se abbiamo una cena all’ambasciata italiana, non possiamo presentarci come l’armata Brancaleone…”  La cena preventivata, poi in itinere, si ridusse ad un tè pomeridiano, in cui l’ambasciatore, che non ricordo chi fosse, era in jeans e maglietta blu e la sua signora  con un vestito modesto,  uno scialletto di lana fatto all’uncinetto e, ai piedi,  un paio di pantofoline cinesi.

Io mi ero sentita in una botte di ferro rispetto alle istruzioni; mi ero preparata, avevo studiato, non andavo alla cieca e poi non possedevo gioielli, non mi truccavo d’abitudine, non mi dipingevo le unghie, avevo qualche vestito che mettevo tutti i giorni, non portavo né minigonne, né tacchi alti.

Chi fossero questi industriali, come si chiamassero le loro mogli, mai saputo, cioè non mi ero mai interessata alle loro persone perchè, a quel tempo, ero giovane e imbottita di pregiudizi ideologici: erano nemici di classe con i quali non ci poteva essere nessuno scambio, nessuna sintonia.  E, per la verità, nel corso del viaggio, momenti di insofferenza reciproca c’erano sono stati e quasi sempre provocati da me.

La  “classe lavoratrice”, sia pure piccolo borghese, era rappresentata da un cardiologo d’ospedale; da una docente dell’Accademia di Belle Arti di Brera, scultrice, con il marito; un’anziana signorina che si presentò come pensionata, in realtà una nobildonna, infermiera volontaria della Croce Rossa, pluridecorata per aver prestato servizio in prima linea per tutti i cinque anni della seconda guerra mondiale; un uomo piuttosto anziano, corpulento, professore di Latino e Greco; una giovane ragazza, più o meno della mia età, di cui non ho mai saputo niente di personale ed io, genericamente qualificata come impiegata.

Di primo acchitto, non è che i compagni di viaggio mi avessero entusiasmato; avevo fatto subito conto sul mio spirito di adattamento e sulla mia propensione al distacco emotivo  dagli ambienti in cui non mi sento a mio agio; e, nonostante queste riserve iniziali, ero  convinta che quell’esperienza sarebbe stata veramente unica per me, indipendentemente da chi c’era o non c’era.

Tutto avevo considerato, tranne la cosa più importante: il cibo.  Purtroppo sono sempre stata refrattaria ad avventure gastronomiche esotiche; non mi incuriosiscono per niente, anzi, tendo proprio a rifuggirle.  Da buona cerebrale, a livello mentale digerisco tutto, a livello fisico niente. E poi sono tuttora estimatrice della saggezza popolare di “moglie, buoi e cucina dei paesi tuoi”.   

Subito, a partire dal primo pasto a Pechino era iniziato il mio psicodramma: almeno sei o sette portate alla volta, ognuna di un singolo colore acceso: rosso, giallo, arancione, verde in varie sfumature; l’odore che emanavano però era il medesimo, a me sgradevole, per cui mi forzavo ad assaggiare qualcosa controvoglia.

Anche gli altri non erano soddisfattissimi; però mangiavano, senza capire bene cosa stessero ingurgitando,…. “ … qui in Cina, è meglio non chiedersi niente e mangiare quello che ci danno…”

Madonna santa, si era messa proprio male per me che mi ero ridotta a mangiare lo scodellino di riso bollito, freddo e scondito, servito come pane,  e qualche frutto.Un giorno mi ero perfino improvvisata una minestrina, cioè avevo messo il riso in un brodo, una specie di consommé che avevo trovato buono, finalmente!  E’ di serpente, mi disse la guida… attimo di sconvolgimento ….. ma la fame era stata più forte e avevo fatto anche  il bis !

Nonostante tutti i miei buoni propositi, però,  dopo tre o quattro giorni, mi era esplosa un’orticaria pruriginosa su tutto il corpo, probabilmente causata dall’intolleranza a qualche ingrediente degli assaggi e, a quel punto, chiesi al responsabile del gruppo, nei limiti del possibile, di farmi preparare qualche pasto semplice, di cucina internazionale:  un pezzetto di pollo arrosto o roast beef con insalata e a me sarebbe bastato.

Dopo qualche giorno, mi dette una risposta negativa; anzi, mi disse, che i Cinesi erano molto suscettibili ed io, con le mie richieste, avrei recato loro offesa, dimostrando di non gradire la loro cultura e la loro ospitalità E poi  la richiesta era solo mia perchè a tutti gli altri partecipanti, la cucina cinese piaceva.  “Signorina, la prego, non ci faccia fare brutta figura!”

Ero già esasperata, incattivita dall’orticaria, e quelle parole mi avevano mandato su tutte le furie…. E’ mai possibile che mi debba portare addosso questa croce…. devo soffrire io, devo reprimermi, devo mortificarmi per “far fare bella figura”, per far felice gli altri?

Mia madre mi aveva martellato per tutta la vita…” fam minga fa figura”, non farmi fare brutta figura con i parenti, i vicini, gli insegnanti, le suore, con chi mi faceva lavorare per insegnarmi un mestiere,  che non avessero a lamentarsi con lei del mio comportamento….dovevo essere ligia, ubbidiente, sottomessa,….io sgarravo, ben consapevole che lo sgarro ogni volta mi sarebbe costato caro!

Accidenti, avevo più di trent’anni, una laurea e ancora trovavo sulla mia strada un chicchessia che si permetteva di dirmi “non ci faccia fare brutta figura”?  La mia aggressività inespressa aumentava di giorno in giorno e, quando fosse venuta in superficie, “non ci  sarebbe stato più niente per nessuno” come si usa dire. E il giorno arrivò.

Intanto gli incontri e le visite con le varie realtà della società cinese andavano avanti a tappe forzate, con un cliché fisso: tazza di té al gelsomino, (che spegne fuochi, infiammazioni interne, ci fu detto), come preambolo di cortesia, poi un responsabile parlava di ciò che stava rappresentando, in termini molto propagandistici; veniva anche consentita qualche domanda, ma il discorso era sempre politicizzato, schematico, intriso di slogan, per cui non si riusciva  neanche a capire la specificità di un ambiente rispetto ad un altro.

Ed infatti, dopo un paio di volte, ci eravamo tutti resi conto che venivano sempre dette le stesse cose, stesse parole, stessa enfasi e così fu da Pechino a Shangai, in circostanze diverse e noi, annoiatissimi ci  fingevamo interessati per dovere di ospitalità e per “fare bella figura”!

Gli accompagnatori cinesi erano un uomo e una donna sui trent’anni, guardie rosse, e l’uomo era l’interprete ufficiale che, fuori dalla sua funzione, era di una educazione formale e impenetrabile.  La ragazza appariva più “umana”, probabilmente il suo compito era quello di raccogliere commenti, osservazioni, annotare le reazioni e i comportamenti, di studiarci un po’, dato che eravamo vicendevolmente stranieri.

Il medico, oltre a me,  era l’unico partecipante  di “sinistra extraparlamentare” e faceva riferimento ad uno dei tanti gruppuscoli estremisti di quel tempo, che io non avevo mai neanche sentito nominare. Era una persona molto riservata, proprio schiva, direi, parlava solo con me e mi sembrava  che rappresentassimo l’avanguardia rivoluzionaria infiltrata tra le fila nemiche dei padroni e dei borghesi asserviti. Parola d’ordine: nessun commento negativo da condividere con  i “destri”; anzi sostegno  ad oltranza del popolo cinese e del suo governo comunista rivoluzionario.

Le nostre vere valutazioni  erano strettamente riservate,  non sempre  positive, e non sempre coincidenti; ma, di fronte al nemico bisognava fare fronte comune.

A onor del vero devo anche ricordare con un pensiero affettuoso l’anziana signorina pluridecorata che, nonostante tutto, nonostante fossimo come il diavolo e l’acqua santa, mi aveva da subito mostrato simpatia e considerazione; anzi costituivo la sua nuova missione di guerra:  rieducarmi, soprattutto nel bon ton e nel linguaggio.E sì,  i c…. erano fiorenti, anche perchè volevo scandalizzare  e marcare la mia differenza dai borghesacci….Per tutti i 21 giorni del viaggio combattè la sua battaglia affinchè sostituissi la parolaccia con “perdindirindina”, ma a me questa “finezza” non dava proprio soddisfazione!

Uno dei tanti incontri programmati si svolse in una scuola o un’accademia d’arte e lì accadde l’imprevisto: fu  formulata per la prima volta la domanda riservata ai visitatori e fu la professoressa di Brera a porla, che si era sentita tirata in causa direttamente.  Il rappresentante oratore, infatti aveva bollato come controrivoluzionaria e nemica del popolo l’arte classica  dell’individualismo borghese ed esaltato quella  rivoluzionaria “illuminata dal pensiero del Presidente Mao e posta sotto la guida della classe operaia”

“Scusi, vuole forse dire che io devo scolpire solo ciò che è nei pensieri del Presidente Mao  e che degli operai mi devono stare dietro le spalle mentre creo per dirmi come e cosa devo fare perchè loro comandano e io che sono un’artista devo essere alla loro mercé?”

Per tutta risposta, il funzionario ripeté per filo e per segno quello che aveva detto prima, perchè doveva attenersi rigidamente al copione; l’interprete non era autorizzato a commentare le  parole ufficiali e così si instaurò una specie di teatrino nel quale la scultrice, che continuava a non capire il contesto, si intestardiva nelle domande e il suo interlocutore, impassibile, a recitare il suo monologo, tanto che lo stavamo imparando tutti a memoria.  Grazie a dio,  scadde il tempo della visita e tirammo un sospiro di sollievo.

Fra il medico e me c’erano stati, sguardi d’intesa, di complicità, perchè noi “sapevamo”, già ci eravamo misurati, almeno a livello teorico e propagandistico con il “realismo socialista” di sovietica memoria….. e poi questi conformisti borghesi che non capivano niente, non sapevano niente…. che cosa erano venuti a fare in Cina…. a provocare… a infettare l’aria?

Erano gli anni della Cina precapitalistica, dell’economia rurale di sussistenza delle Comuni agricole e del collettivismo forzato: tutti i Cinesi adulti, maschi e femmine,  vestivano una divisa blu o verde, secondo la stagione, costituita da pantalone, giacca chiusa al collo,  camicia e berretto, tale e quale le iconografie del Presidente Mao  che inondavano all’epoca l’Europa. Una uniformità, una monocromia spersonalizzante che mi mettevano a disagio, mi facevano percepire le persone quasi come esseri semoventi intercambiabili….. erano tutti uguali, non si  potevano distinguere l’uno dall’altro.

La diversità, la fantasmagoria dei colori era riservata al mondo dell’infanzia, dei nidi, degli asili in cui il contrasto con il fuori era talmente stridente che lasciava sbalorditi.

Ricordare oggi,  a  37 anni di distanza quel  viaggio è,  gioco forza, per grandi linee, cioè più per esperienze e coinvolgimenti emotivi che non per analisi politiche o sociologiche delle tante situazioni particolari.

Non ricordo di avere visitato fabbriche di qualsiasi genere, forse solo qualche laboratorio con macchine da cucire; in compenso, fummo ospitati nei trasferimenti dal nord al sud del Paese in un paio di Comuni agricole molto isolate, all’interno, i cui componenti conoscevano per la prima volta degli occidentali.

Il viaggio su queste grandi distanze avveniva con piccoli  aerei russi, dei residuati bellici sicuramente che,  solo a vederli, qualche ansia la suscitavano.

Centinaia e centinaia di chilometri nel  verde particolarmente brillante, splendente delle risaie, un mare d’erba sterminato, un’energia della natura ancora in armonia con l’umana.

Il verde era diverso da quello delle nostre risaie della Lomellina o del Vercellese, forse per  la rifrazione della luce,  forse perchè la terra e l’acqua erano ancora incontaminate.

Certo che fu per tutti uno shock  “conferire” la propria quota parte di concime, nel senso che durante la giornata, se si aveva un bisogno fisiologico, si doveva andare in grandi gabinetti pubblici, divisi per maschi e femmine, costituiti da  stretti canaletti per una lunghezza di diversi metri, sul cui bordo ci si accucciava in modo da far cadere le deiezioni nei vasconi di raccolta sottostanti e che, dopo un certo periodo di decantazione, andavano a costituire con le deiezioni animali e i cascami vegetali il concime organico naturale per le culture.

Noi, capitaliste occidentali, sconvolte nella nostra privacy più segreta, entravamo una alla volta in questi capannoni con almeno 10 o 20 canaletti; poi arrivavano d’un colpo gruppi di Cinesine che facevano quello che dovevano fare con estrema naturalità, chiacchierando  con le loro vocine un po’ stridule e sorridendo a noi che non riuscivamo a nascondere il nostro imbarazzo.

Gli alloggi che ci erano riservati nelle Comuni avevano dei bagni normali, magari solo un paio per tutti, ma rispetto ai canaletti collettivi, erano manna del cielo. L’impressione che avevo era che tutto fosse ridotto all’essenziale, povero rispetto ai nostri standard di vita senz’altro, ma non misero, anzi con una certa dignità che derivava ad ognuno dal lavoro che faceva per il suo sostentamento, per quello della sua comunità e dell’intero popolo cinese.

A ricordarla, la storia dei calzini, mi fa ancora sorridere.  Le “casalinghe” non facevano certo il bucatino la sera; si erano portate una valigia di biancheria di ricambio e quella sporca l’abbandonavano nei cestini come rifiuto.  Il problema era che all’epoca in Cina non esisteva proprio il concetto del rifiuto: tutto veniva recuperato e riciclato, qualsiasi cosa, anche  il contenitore del rullino della macchina fotografica, il cordoncino dei pacchi, qualsiasi carta e lo si ritrovava alla tappa successiva lavato, stirato, rammendato, lucidato, ripiegato con cura.

Dopo 18 giorni di viaggio avevamo tutti una borsa in più con tutti gli scarti che ci avevano forzatamente accompagnato per tutto il periodo e di cui ci eravamo liberati appena arrivati ad Hong Kong.

Io non ero infastidita, come gli altri, da queste consuetudini perchè le avevo vissute e ancora le vivevo a casa mia.  La mia nonna materna era morta quando avevo  14 anni, e viveva in una grande cascina medievale longobarda, rimasta tale e quale, che non aveva i servizi.  I “bisogni” si facevano nella stalla o nell’orto in uno spazio appositamente riservato e venivano poi usati, dopo un certo tempo,  come concime.

Per non parlare poi del recupero e del riciclo: a parte l’essere stata educata dalla povertà del dopoguerra, dagli anni di disoccupazione di mio padre per cui dopo la scuola media avevo dovuto mettermi a lavorare, mia madre nata contadina, divenuta operaia di fabbrica, era una fanatica del riutilizzo; “l’usa e getta” per lei era un vero sacrilegio. Faceva coppia con la nostra dirimpettaia di pianerottolo ed insieme escogitavano le forme più impensate e anche più creative di riciclo degli scarti; si sarebbe potuto scrivere un manuale sull’argomento.

Ciò che mi aveva veramente entusiasmato di quella Cina era stato il modello dell’istruzione, dello sviluppo delle potenzialità del bambino attraverso il gioco, ma non fine a sè stesso, riempitivo del tempo, bensì finalizzato alla sintonia fra capacità cognitiva e abilità manuale, sostenute dalla scioltezza e dalla padronanza del corpo fisico date dalla ginnastica e dalle danze tradizionali.  Corpo, psiche, mente che si sviluppavano insieme per dare vita ad una personalità adulta equilibrata e matura.

Era un modello ideato dalla classe dirigente di allora, era la riproposizione di una saggezza antica, era un caso?… Non so, certo è nessuno di noi, quando ci si cimentava con qualcuno di questi giochi infantili, all’apparenza semplici, in realtà veri e propri test intellettivi, riusciva a destreggiarsi soprattutto per la lentezza del coordinamento mano-cervello, ma anche per qualche difficoltà  ad entrare in quella forma di logica.

In prima elementare il piccolo Cinese imparava i 5000 ideogrammi base del Mandarino e ogni ideogramma è un concetto, non è una una parola.

In una scuola rurale assistemmo ad una lezione di medicina tradizionale cinese e di agopuntura che i bambini si praticavano a vicenda per imparare bene la tecnica, seguendo le mappe dei meridiani appese alle pareti, ovviamente sotto la supervisione dell’insegnante.  Ognuno, infatti, aveva in dotazione uno scatolino di alluminio, tipo quello in cui noi conservavamo la siringa quando eravamo poveri, con dentro diversi aghi e l’impressione che avevo riportato era stata che avrei potuto anche fidarmi.

Nel 1976 i Cinesi erano ottocento milioni, la stragrande maggioranza ancora contadini perchè le  industrie di base erano in fase di sviluppo; oltre tutto si erano fatti carico di un piccolo Paese alleato, l’Albania di Enver Oxa, ancora più arretrato.

La sessualità, consentita solo all’interno del matrimonio, era fortemente contenuta, nel senso che ci si poteva sposare solo dopo i trent’anni e con il permesso del Partito; assolutamente la coppia non poteva avere più di un figlio, pena la separazione a vita in due regioni irraggiungibili; quindi il controllo della natalità era pressocchè  totale e la contraccezione e l’interruzione di gravidanza  obbligatorie.

Naturalmente i “destri” erano inorriditi: erano lesi i diritti fondamentali della persona, i diritti umani, quello era un Paese senza Dio, in cui la vita umana veniva non solo repressa, ma addirittura impedita con gli omicidi preventivi… orrore, orrore!

Io avevo tentato di dare un’altra chiave di lettura a queste imposizioni coercitive, sicuramente per noi inaccettabili, ma necessarie in quella fase di costruzione di un immenso Paese che era appena uscito da guerre interne durate centinaia di anni e dalla depredazione operata dell’imperialismo britannico e occidentale in genere, che l’avevano anche infettato con la diffusione tra le masse dell’oppio.

La Repubblica Popolare cinese era stata proclamata solo 25 anni prima quando ancora milioni di persone morivano di fame per le carestie e per le epidemie.  Per i primi anni aveva avuto il sostegno economico e tecnico dell’Unione Sovietica, poi i loro rapporti si erano interrotti e la classe dirigente, sia pure attraverso prove ed errori,  aveva dovuto trovare le strade, autarchicamente,  per assicurare un minimo vitale  a ciascuno degli 800  milioni di abitanti.

Da un punto fermo aveva dovuto partire, cioè bloccare l’aumento demografico perchè, se ogni anno ci fossero stati 100, 200 milioni  di persone in più, non  sarebbe stata possibile alcuna crescita, né collettiva, nè singola, ma solo povertà, se non miseria, negazione di energie e potenzialità umane, oltre naturalmente alla possibile vulnerabilità sul piano dei rapporti internazionali.

Nonostante tutte queste costrizioni e repressioni, la Cina, in meno di 40 anni, ha raggiunto il ragguardevole numero di 1 miliardo e quattrocento milioni di abitanti, in pratica il 20% della popolazione mondiale. Aumentando in forma esponenziale, si può già prevedere dove arriverà fra qualche decina d’anni.

Un giorno, ormai a metà viaggio, la ragazza cinese venne a sedersi accanto a me,  in occasione di un trasferimento in pullman,  e mi chiese le impressioni personali, i commenti su ciò che avevo visto; una specie di intervista che aveva già fatto ad altri.Le avevo confermato il mio apprezzamento, sincero, perchè avevo avvertito una grande energia di costruzione, di evoluzione, di riscatto che, prima o poi, avrebbe dato frutti straordinari….,

“….però adesso voi Cinesi dovete essere un po’ più aperti con i visitatori occidentali, un po’ più disponibili…..io alla vostra cucina sono intollerante…. mi sono riempita tutto il corpo di brufoli fastidiosi…. guarda, guarda come sono conciata….  non è che pretenda il risotto con gli ossibuchi o i pizzoccheri della Valtellina, ma mio dio, mettetemi in grado di mangiare qualcosa di più del riso bollito, freddo, scondito….. ho pagato fior di soldi, non sono venuta gratis….!”

La compagna rimase basita, sia per la mia  veemenza neanche tanto bonaria,  sia perchè era la prima volta che sentiva una lamentela rispetto al cibo; mi disse che dall’inizio del viaggio era stata proposta l’alternativa della cucina internazionale anche per pasti singoli, a richiesta, ma che aveva sempre avuto rassicurazioni che andava bene così, che eravamo tutti contenti, entusiasti della cucina cinese.  Anzi, dalla sera stessa, avrebbe chiesto ad ognuno, per ogni pasto successivo, come e cosa avrebbe voluto mangiare. Apriti cielo e fulminali, apriti terra e inghiottili…..  a cena, scoppiò la mia “tempesta perfetta”, allorquando la guida chiese: “Chi vuole da domani la cucina internazionale?” e tutte, dico tutte le mani si alzarono!

“… anche se siete padroni e  borghesi avete l’animo degli schiavetti, …. adesso finalmente capite cosa vuol dire : “sotto la guida della classe operaia”,… vuol dire che io, proletaria, ho rivendicato il mio diritto perchè ho dignità…. voi, che me l’avete fatta dietro tutti questi giorni, ne avete subito approfittato,  parassiti…. buoni solo a sfruttare gli operai…. un po’ di rieducazione nei campi di lavoro coatto, come fanno qui con i nemici del popolo, … ecco che cosa vi meritate, !” Inutile dire che la situazione era precipitata di brutto e ci volle un’opera intensa di pacificazione da parte del professore di Latino e Greco che poi, a Hong Kong si rivelò essere un prelato che aveva dovuto celare il suo vero stato, altrimenti non avrebbe ottenuto il visto d’ingresso in Cina.

Tutto è bene quel che finisce bene; gli ultimi giorni insieme li passammo in un clima di sospensione delle ostilità, di cortesia di maniera…. una “casalinga” mi regalò un grande foulard rosso  che avevo ammirato in un negozio di Hong Kong, ma mi era sembrato troppo caro per le mie tasche; un ricordo, mi disse, del viaggio e, scherzosamente, del “gratta gratta” che era stato il mio  più intimo accompagnatore…. Non me l’aspettavo e mi ero anche commossa…. il foulard ce l’ho ancora ….

Che dire, com’è cambiata la Cina da allora, come sono cambiata io, come è cambiata l’Italia in questi 37 anni?…. la riflessione è inevitabile.

Marx in un suo scritto, non ricordo quale, disse che l’autunno, cioè il declino di un Paese è contemporaneamente la primavera, cioè la rinascita di un altro; all’agonia dell’Occidente, come un vecchio in fase terminale, l’Oriente contrappone l’energia, il rigoglio della vita nuova di miliardi di esseri umani, che fino a pochi decenni fa, avevano vissuto fuori dal tempo e dalla storia; erano stati sacrificati alla supremazia della razza bianca e al suo dominio economico e culturale.

Nascere, brillare, sparire è una legge cosmica.

Ora il vento è girato, le correnti cosmiche hanno preso un’altra direzione; le razze orientali sono le nuove protagoniste del terzo millennio; i loro antichi dei si sono risvegliati, le loro Energie extrafisiche, che sono il condensato delle esistenze terrene, danno loro la potenza per portare avanti l’evoluzione di se stessi e dell’umanità nel suo insieme, fino a quando avranno esaurito la loro funzione.

L’I CHING, il libro della mutazione, il più antico testo divinatorio cinese, dice che, nella fase propizia, “… le forze del Cielo e della Terra sono in rapporto e  tutte le cose sono in comunione fra loro.  Alto e basso si mescolano ed hanno una identica volontà. L’uomo superiore è al centro delle cose.  Coloro che hanno basso valore morale gravitano intorno ai margini.  La strada dei primi cresce, quella dei secondi cala…” (esagramma 11, Pace)

La testimonianza storica e visiva di quella Cina lontana è espressa in questi quadri, che sono in realtà dei collage miniaturizzati, che ho riportato come souvenir dal viaggio e che, da allora, incorniciati, ornano le pareti della mia casa.

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