Mio padre è morto ai primi di dicembre del 1958; io avevo compiuto, in agosto, sedici anni e gli ultimi tre erano stati un vero inferno nella nostra famiglia. Lui, dopo aver perso il suo lavoro da operaio specializzato che gli aveva dato una identità professionale e sociale di capo famiglia, già devitalizzato da cinque anni di guerra in cui ne aveva passate di tutti i colori, sfuggendo per puro miracolo alla deportazione in un campo di sterminio nazista, in cui finirono ben 150 operai, suoi compagni di lavoro e, vivendo alla macchia per un certo periodo di tempo, fu preda di un rastrellamento che gli lasciò i segni a vita. Non mi addentro in particolari per rispetto di mio papà Alessandro al quale non ho mai smesso di voler bene; tuttavia avevo vissuto la sua morte come una vera e propria liberazione, in quanto la situazione angosciosa che si era creata poteva ben paragonarsi ad una bolgia infernale. L’unica consolazione, se così si può dire, è stata che Alessandro sia poi morto nel suo letto e non in giro e in malo modo.
Le festività di quel Natale le avevamo passate in casa dei parenti stretti di mia madre, una sorella e un fratello ex suora ed ex frate, single; la nonna era già morta da un paio d’anni, subito dopo essersi trasferiti, dalla cascina longobarda in cui erano nati, in questa nuova casa, una villetta di quattro locali che era stata costruita, mattone su mattone, perfino gli scavi delle fondamenta, dalla famiglia stessa. A quel tempo, nel dopoguerra, non c’erano piani regolatori o vincoli urbanistici; pochissimi soldi, tanta voglia di riprendere a vivere, lavorare e ricostruire. Il contado, appena fuori i paesi, veniva disseminato da queste casette auto costruite, in genere quasi attaccate l’una all’altra, per risparmiare il terreno, e davano origine ad una specie di villaggio isolato, denominato “Corea”, per lo meno qui nel milanese. Il vero salto di civiltà era rappresentato dal gabinetto in casa, ma non ancora si prevedeva il riscaldamento in ogni stanza: solo in cucina, dove si viveva e le camere da letto erano gelide e umide.
Io, dopo il pranzo di Natale, per sottrarmi all’atmosfera mortifera e mortuaria con tutte le donne vestite di nero, le vicine, le parenti alla lontana che venivano a fare le condoglianze e a recitare il rosario, avevo finto un malore, sicché mi era stato consentito di andare a letto con un paio di scaldini di metallo, nella camera che lo zio aveva ceduto a noi, sistemandosi lui in altro modo. Già aver recuperato un minimo spazio vitale mi aveva ridato fiato, come si dice, però dovevo anche far passare il tempo e così mi era venuta l’idea di cercare, nel comodino, qualcosa da leggere. Che cosa poteva avere lo zio? La Bibbia!
Era la prima volta in vita mia che prendevo in mano il Sacro Libro, nonostante sia stata una cosiddetta fedele, secondo le consuetudini sociali dell’epoca e, anzi, avessi frequentato le scuole medie inferiori dalla suore in semi-convitto. Allora, fino al Concilio Vaticano II° (1963-65), tutta la liturgia era praticata in Latino, di cui la quasi totalità dei fedeli non capiva nulla; solo la parabola del Vangelo che veniva letta durante la Messa era in Italiano e la predica; di fatto si continuava credere per fede e non per conoscenza perché questi racconti un po’ fiabeschi così isolati dal contesto generale, potevano solo essere misteriosi e consolatori allo stesso tempo, ma niente di più.
Subito mi aveva colpito nella primissima pagina, l’imprimatur del Sant’Uffizio per la dottrina delle fede, non ricordo con precisione la denominazione, con il quale si vietava esplicitamente ai sacerdoti o ad altri autorizzati di dare in mano il libro sacro ai semplici fedeli perché lo potessero leggere da soli. Ed è stato così, per la Chiesa Cattolica, fino alla comparsa in Italia, intorno agli anni ’70 del novecento, delle prime Congregazioni evangeliche e, soprattutto dei Testimoni di Geova per i quali, lo studio letterale della Bibbia, costituisce il clou della loro predicazione.
Per un momento avevo avuto un’esitazione; già mi sentivo in colpa per avere mentito per il malessere, per essermi sottratta al rosario, per avere frugato nel comodino dello zio e aver preso in mano il Libro Sacro interdetto ai semplici fedeli…. ormai ero in pieno peccato e tanto valeva che andassi fino in fondo! L’Apocalisse mi aveva subito attratto come una calamita, “l’oscuro oggetto del desiderio”; ne avevo spesso sentito parlare, anzi solo nominare, ma come una specie di tabù che intanto, in sostanza, nessuno conosceva e qualche prete a cui mi ero rivolta era stato molto evasivo e scoraggiante nella risposta. D’altra parte, ero ancora in attesa di qualcuno che mi spiegasse il significato dei primi versetti del Vangelo di Giovanni dal tempo della prima Comunione!
Subito, dalle prime pagine, ero stata molto intimorita dal linguaggio enfatico, ridondante, anche poco comprensibile, fuori dal comune parlare; non conoscevo allora il concetto di simbolo e di rappresentazione immaginativa: non capivo niente di niente, trovavo tutto ostico, vagamente minaccioso, sicuramente tedioso. Tuttavia volevo arrivare alla fine; saltando, leggendo qua e là, mi ero imbattuta nei famosi quattro Cavalieri dell’Apocalisse e lì finalmente mi ero trovata su un terreno adatto alla mia capacità di comprendere perché io, le disgrazie che annunciavano le avevo già provate tutte! Guerra, sangue, fame, sofferenze, mortificazioni, morte le avevo proprio vissute sulla mia pelle attraverso gli ultimi anni della vita martoriata di mio padre.
La tragica novità, si fa per dire, era stata che queste profezie riguardavano l’intera Umanità, due, tre miliardi, quanti eravamo allora, e non solo mio padre o tante altre persone particolarmente disgraziate. Da quello che avevo capito, tutti coloro i quali, in un modo o nell’altro, avevano fatto una brutta fine, se lo erano meritato perchè erano impuri, malvagi e la purificazione sarebbe continuata fino allo sterminio del genere umano, salvo 144.000 eletti che, con la loro veste bianca, sarebbero vissuti per l’eternità in cielo con il Signore.
Una mazzata tremenda, ma al tempo stesso, un impeto di ribellione: altro che il sacrificio sulla croce di Gesù Cristo che ci aveva riscattato dai nostri peccati; il destino globale di tutti gli umani era ben altro; per forza parlavano in Latino e silenzio assoluto sull’Apocalisse, o Rivelazione, sennò in chiesa non sarebbe andato più nessuno. Io, fino a quel momento di esseri malvagi non ne avevo conosciuti; la mia esperienza di vita era limitata alla cerchia sociale di gente povera, proletaria, che aveva subito e patito la guerra con tutte le sue devastazioni, contro la propria volontà. Mio padre, socialista, antifascista, mi aveva sempre detto che gli operai, di qualunque nazionalità fossero, non avevano nessun motivo per odiarsi e farsi la guerra gli uni contro gli altri, anzi dovevano essere fratelli. Erano solo i padroni che dalla guerra traevano profitto più che dalla pace.
Mi era venuto il dubbio atroce: i 144.000 non saranno ancora stati loro, i padroni, fortificati dallo sfruttamento fino alla morte degli operai e della povera gente? Che senso aveva la storia personale di ognuno, la mia che a 16 anni avevo già conosciuto il male del mondo e adesso apprendevo anche che avrei vissuto entro uno schema obbligato precostituito, in cui ogni momento potevo essere l’agnello sacrificale, come tutti i poveracci come me? Sarebbe stato molto meglio che non fossi neanche nata! Quel pomeriggio di Natale avevo perso di colpo il mio candore, la mia innocenza rispetto al significato della vita e messo, inconsapevolmente, una mina alla base del sistema di credenze che mi era stato inculcato dalla nascita e che avevo interiorizzato fino a quel momento; mina che sarebbe esplosa sette anni dopo in una circostanza particolare.
Non avevo fatto parola con nessuno di quanto avevo letto; mi sforzavo a non far trapelare nulla del tumulto interiore, ma non riuscivo neanche a parlare; mi ero rinchiusa in un mutismo del tutto inusuale per me, che ero piuttosto ciarliera. Mia madre, dall’inizio aveva pensato che fosse una forma di elaborazione tardiva del lutto, poi dopo qualche settimana, aveva cominciato a preoccuparsi; mi aveva fatto parlare dagli zii, aveva coinvolto l’insegnante di Italiano e Latino delle Medie, una laica con la quale ero rimasta in contatto epistolare perché empaticamente aveva compreso la mia diversità e mi aveva voluto bene; e il medico di famiglia che mi aveva imbottito di ricostituenti. Io avevo un fuoco che mi bruciava dentro, una specie di ossessione, ma esteriormente ero una statua inanimata.
La situazione si sbloccò un paio di mesi dopo perché, del tutto inaspettata, mi era arrivata una proposta di lavoro da una azienda commerciale di Milano, a cui ero stata segnalata da un conoscente che, avendone la possibilità, si era attivato per aiutarci. A quel punto, avevo dovuto scrollarmi per forza, non potevo assolutamente perdere l’occasione; mia mamma mi fece subito smettere il lutto e confezionare qualche abito nuovo adatto per andare a lavorare a Milano. La prova era stata brillantissima per cui fui subito assunta come stenodattilografa-centralinista. Una vera iniziazione che mi aveva fatto ritornare l’interesse a vivere, anzi mi aveva dato grandi stimoli, fiducia in me stessa, autostima: per la prima volta nella vita ero chiamata “signorina” e già questo mi aveva dato una appagante identità sociale.
Oltre che per la capacità e l’impegno che mettevo nel lavoro, ero stata molto apprezzata e amata, in un certo qual senso, per la genuinità e la spontaneità che esprimevo, proprio da giovane provinciale qual ero, che suscitavano tenerezza; ero consapevolmente felice per essere sopravvissuta alla grande tribolazione familiare e personale ed avere iniziato una vita tutta nuova. Allora, forse non era proprio definitivamente catastrofico il destino degli esseri umani, si sarebbe potuto cambiare, il mio era cambiato. Come si dice, la vita continua, morte e rinascita si alternano nelle vicende umane e lì credo che avesse preso corpo nel mio profondo questo concetto, in modo informe, non consapevole, ma che sarebbe poi maturato ed esperito via via nel corso dell’esistenza.
L’incontro con l’Apocalisse di Giovanni, con tutti i traumi, le emozioni, i ripensamenti che mi aveva suscitato, in ogni caso non era stato una fugace meteora nella mia psiche; si era semplicemente inabissato nell’inconscio da dove “teneva sotto controllo” il mio adattamento al mondo, cioè a che non mi identificassi mai completamente in esso. Infatti, non appena paga di qualche risultato professionale, sociale, affettivo, mi adagiavo un po’, una bella mazzata ribaltava la situazione e, in preda all’inquietudine, mi rimettevo ogni volta alla ricerca di quel qualcosa in più di cui la mia anima aveva assolutamente bisogno per proseguire nel suo programma di evoluzione.
Da quel tempo mi è rimasta una passione viscerale per le profezie, ne ho accumulate a centinaia, di tutti i tipi, di Santi e Beati di tutte le religioni, laiche, perfino di maghi, tranne Nostradamus per il quale non ho mai avuto simpatia, fino a sviluppare io stessa una certa attitudine ad intuire avvenimenti collettivi, ben oltre il qui ed ora, non certo a profetizzare, caso mai a farne una lettura di secondo livello, appunto”oltre il velo”.
Dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso avevo iniziato a leggere, anzi a studiare l’opera omnia di Rudolf Steiner e, ancora più intensamente negli 11 anni in cui mio marito ed io, in Abruzzo, ci eravamo dedicati con impegno e tanta fatica all’agricoltura biodinamica; l’unico libro trascurato, per modo di dire, è stato proprio “L’Apocalisse”; tutte le volte che l’avevo preso in mano, solo dopo poche pagine, lo mettevo via perché lo trovavo troppo pesante, peggio dell’originale di Giovanni: non ero in sintonia. Ora,invece, ho sentito la necessità di conoscerlo e di andare in profondità, per cui voglio farne una elaborazione personale, cioè estrarre dall’insieme dell’opera quelle enunciazioni di Steiner che mi sento di condividere anche come mia verità, perché le ho sperimentate in me, vissute attraverso fasi di maturazione spirituale, praticamente una griglia conoscitiva del mio Essere oggi.
E’ un lavoro che mi terrà impegnata per alcuni mesi, tuttavia intendo pubblicare questo compendio nella Sezione Saggi come Meditazione di Natale e proporlo ai miei lettori che, anche non conoscendo i concetti e il linguaggio dell’Antroposofia, avvertono la fine drammatica di questa scena del mondo ed hanno più che mai bisogno di trovare ragione e speranza nella continuità della Vita; di perseverare nella evoluzione spirituale delle proprie coscienze, non solo per se stessi, ma per la nuova Umanità che rinascerà.
2 Comments
Mil Valos
19 Novembre 2016Continuiamo a baloccarci con l’idea di “infinito” ma ragioniamo perlopiù con concetti dipendenti da ingenue interpretazioni dell’impatto del paranormale sull’essere umano ancora nello stadio di ominazione ed in quelli che ne sono conseguiti.
PAZIENZA !
Intanto cerchiamo almeno di chiarirci le idee base.
Io ci ho provato ed ho ottenuto il seguente risultato (cui mi riferisco come al “Milvalos’ Aphorism”):
“L’affermazione dell’infinito è implicita in qualunque altra affermazione altrimenti il cambiamento è ingiustificabile.”
[mlv sa19no16 04e41]
Mil Valos
21 Novembre 2016Aggiungo citazione da homepage motivante il mio commento:
“Sono una donna non più giovane ancora nel cammino della conoscenza di sè e dell’Infinito.
PS
La prego di ripetere l’email involontariamen te appena cancellata con lo spam.
[mlv lu21no 16 17e18]
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