Oggi nella cultura occidentale, il singolo uomo è un soggetto giuridico titolare di diritti civili e politici che gli sono garantiti dalle Carte Costituzionali dei singoli Stati, in particolare riguardo alla libertà di pensiero, parola, professioni di fede, di aggregazione politica, ecc. Perlomeno, finora è stato così, anche se il vento che spira ora sul continente è un vento gelido di negazione e di tirannia.
Il concetto di libertà individuale ha avuto il suo humus naturale nella dottrina originaria del Cristianesimo, mutuata dallo Zoroastrismo, secondo la quale ogni essere umano, uomo, donna, giovane, vecchio, povero, ricco, padrone o schiavo vale per se stesso davanti a Dio per le sue azioni e i suoi meriti e non perché appartenga ad una linea di sangue, ad una etnia o ad un clan familiare. Il principio della libertà e della responsabilità personale ha quindi, nel bene e nel male, permeato tutta una concezione del mondo e dell’uomo nelle varie fasi della sua vita terrena.
Tutta la letteratura, la filosofia, la scienza, la dottrina giuridica, le scienze sociali hanno dato ognuna il proprio contributo alla creazione e al potenziamento della forma pensiero che rappresenta l’individuo come il signore e il padrone di se stesso che, solo per il suo libero arbitrio, può perfino scegliere se sottomettersi o meno alla divinità. È interessante però cogliere il momento di passaggio nel quale il concetto etico-filosofico di libertà, che ha rappresentato per centinaia e centinaia di secoli la meta ideale dell’evoluzione della coscienza delle genti europee, si sia logorato, quasi come se avesse esaurito la sua positività, per divenire un fattore di disgregazione.
Infatti, il concetto di libertà individuale, negli ultimi 50-60 anni è stato esasperato e portato alle estreme conseguenze da una psicopedagogia cosiddetta libertaria, antitradizionale che ha propagandato, fino ad imporsi sia nelle scuole di pensiero, sia direttamente nelle famiglie attraverso la televisione, che l’esercizio di una qualunque forma di autorevolezza dell’educatore, genitore o insegnante, rappresentasse una violazione della dignità e della libertà del bambino, creando così dei vuoti o assenza di delimitazioni che hanno impedito ai bambini stessi di prendere coscienza dei loro limiti e delle loro potenzialità.
Parallelamente però, questi vuoti di orientamento e di discernimento sono stati colmati dai consumi superflui, dagli oggetti, giocattoli, vestiario, eccesso di cibo e di dolciumi che, con la scarsa attività fisica, specialmente nelle grandi città, hanno fatto sì che l’obesità infantile sia oggi uno dei problemi sanitari più diffusi e allarmanti. Negli ultimi anni poi, la diffusione a livello di massa della tecnologia elettronica ha soppiantato qualunque altro modello d’uso e consumo precedente. Ai bambini, per fare un esempio, in occasione della prima Comunione o Cresima, si regalava qualcosa in oro, catenine, medagliette, braccialettini, libri di valore, impegnativi; ora, al massimo la bicicletta mountain bike, altrimenti sono cellulari ultimo grido, play station, IPad; perfino dai primi anni di vita hanno il televisore personale nella loro cameretta!
Per i decenni in cui il consumismo di massa aveva potentemente condizionato l’opinione pubblica, era convincimento diffuso e ben radicato che il bambino dovesse avere subito tutto quello che vedeva alla televisione, altrimenti si sarebbe sentito un emarginato, un insicuro, che sarebbe cresciuto con grandi complessi di inferiorità, o avrebbe vissuto qualche giusta opposizione alle sue continue, inesauribili richieste, come violenza vera e propria. Questi erano i messaggi della pubblicità, la propaganda delle industrie che dovevano vendere e fare profitto; ma, astutamente, lo facevano dire dagli esperti psicologi, sociologi, pedagoghi i quali, riempiendo di sensi di colpa i genitori, li avevano confusi; fino al punto da non sapere più cosa fare, quale fosse il loro vero compito, abdicando così alla loro funzione prioritaria che è quella di preparare alla vita adulta, autonoma e responsabile il piccolo essere umano.
Carlo Marx, già nell’ottocento, aveva formulato la teoria secondo la quale è la struttura economica a dare la linea a tutta la sovrastruttura sociale, cioè il pensiero, la cultura, l’organizzazione sociale, i modi di vita, i sentimenti stessi dei singoli e delle masse che si devono adeguare, anzi subire passivamente perché, molto spesso, non sono neanche in grado di comprendere, né di controllare gli avvenimenti. I processi di evoluzione psico-spirituali umani, cioè di maturazione delle coscienze, in realtà hanno tempi e modi assolutamente diversi, sono molto, molto più lenti e complessi, non coincidenti con il cosiddetto “progresso” dell’economia globale e della tecnologia.
La scuola, nella sua generalità, non è proprio in grado di aiutare le famiglie; certo custodisce i loro figli per un certo numero di ore al giorno, ma, al di là dell’alfabetizzazione, dell’apprendimento delle nozioni basilari, è un’area di parcheggio che non prepara né al lavoro, né tanto meno alla vita. Non assolve più la sua funzione principale che è quella della trasmissione e della assimilazione delle nuove generazioni al modello strutturale giuridico-sociale e spirituale della comunità o della nazione che, nel declino di civiltà in atto, è in disfacimento. È onesto ammettere che questa funzione è stata assunta, nel modo più deteriore e deresponsabilizzato, dalla televisione e attualmente dalla cosiddetta “rete”. Basti ricordare che per anni si è parlato e si continua a parlare dei problemi della scuola solo come quelli relativi allo stato giuridico degli insegnanti, al massimo della condizione edilizia degli edifici scolastici!
Ora più che mai ci si rende conto del danno che questa pseudopsicologia permissiva, unitamente alla irresponsabile disattenzione, rispetto a qualsiasi modello realmente educativo e formativo, ha arrecato alle ultime generazioni che – sempre riferendoci ovviamente ai grandi numeri – ha tolto forza, orientamento, determinazione, protezione, fiducia e autostima ai giovani che sono fragili, inconsistenti, frustrati; crescono nel fisico, ma restano infantili nella mente e nel carattere, perdendo in valore umano.
Nelle generazioni precedenti, anche in quelle più recenti del periodo dell’industrializzazione rampante, l’istruzione di massa era molto più limitata. In Lombardia, per esempio, in genere, chi era nato subito dopo l’inizio del secolo, anche nelle campagne, per lo meno imparava appena appena a leggere e a scrivere il proprio nome; ma la generazione successiva acquisiva la licenza elementare e, nelle città, alcuni già prendevano il diploma di scuola professionale perché c’era una richiesta di mano d’opera qualificata da parte delle industrie in espansione
Praticamente, fino agli anni’ 60 – ’70 del novecento pochi erano i diplomati e pochissimi i laureati; tuttavia la crescita dell’infanzia e l’educazione della gioventù erano più lineari, più coese perché poggiavano ancora sulla tradizione, sul sapere pratico della genealogia familiare, sugli insegnamenti morali della Chiesa Cattolica che risalivano all’Antico e Nuovo Testamento. Questa cultura, proprio in senso antropologico, solo per pochi decenni, era riuscita in parte a fare da argine al disorientamento che via via si diffondeva nella popolazione al cambiamento accelerato della vita economico-sociale collettiva determinato dall’avvento dell’ era industriale.
Sempre riferendoci alla esperienza lombarda è ormai storia che, nel passaggio fra la società agricola a quella industriale, particolarmente nell’ultimo dopoguerra, con l’inurbamento di milioni di persone che venivano dalla campagna, dal Meridione d’Italia e dal Veneto, ci siano stati costi umani enormi. Pur tuttavia, in un periodo economico in espansione, ognuno aveva la possibilità di fare un progetto di sé, di migliorare la sua vita e quella dei suoi figli, pagava un prezzo, per alto che fosse, perché sapeva, percepiva che avrebbe avuto un futuro migliore del presente. I ragazzi, fino agli anni ’60 e oltre, qui nelle nostre zone, per la maggior parte, iniziavano la loro vita lavorativa nelle fabbriche subito dopo la scuola dell’obbligo, appena avevano l’età del libretto di lavoro – 15 anni – e restavano con la qualifica di apprendisti per tre anni; si sindacalizzavano molto presto, erano interessati alla politica, molti divenivano militanti dei partiti operai di sinistra, nel sistema rappresentativo della delega, certo, ma in ogni caso non erano passivi. Spinti dalle loro necessità di vita, simbolicamente “impugnavano la spada”.
Migliaia o centinaia di migliaia di giovani maschi – le femmine erano molte di meno – dal dopoguerra, operai per la maggior parte e piccoli impiegati , frequentavano per lunghi anni, le scuole serali, tutte private e molto costose, per prendersi un diploma di ragioniere, di geometra, di perito industriale o di scuole tecniche professionali, con la volontà ferrea di mettere a profitto i propri talenti, nonostante le enormi difficoltà e sacrifici, pur di sfuggire alla condizione proletaria e operaia, che significava povertà economica e culturale, una inferiorità che condizionava anche la propria psiche. Una vera e propria iniziazione alla vita. I ragazzi erano spronati dalle famiglie stesse a questo impegno; i più svegli non volevano portare “el tonic bleu” tutta la vita, ma aspiravano al “colletto bianco”, cioè a divenire tecnico o impiegato nell’azienda. A quel tempo la differenza di trattamento fra le qualifiche impiegatizie e salariali era enorme, così che lo status della persona si avvicinava alla piccola borghesia che, vista dal di fuori, era il modello da emulare.
La cosiddetta “etica del lavoro”, che era uno dei valori fondanti della educazione e della socializzazione dei giovani, era sostenuta sia dalla necessità economica, sia dalla convinzione tramandata e totalmente interiorizzata dalla gente, che l’inattività, l’ozio, la noia, il senso di vuoto fossero distruttivi di per sé per il ragazzo, che doveva essere tenuto attivo, interessato, responsabilizzato perché diventasse un uomo, un lavoratore, un cittadino, un padre di famiglia. La psicologia non si sapeva nemmeno cosa fosse a livello popolare, specialmente la psicologia spicciola e superficiale che danni poi, negli anni successivi, ne avrebbe fatti veramente tanti. Grande importanza veniva data alla maturazione della responsabilità personale dei ragazzi all’interno della famiglia e a scuola con il rispetto degli insegnanti e del loro ruolo educativo.
Anche prima dei 15 anni, magari durante le vacanze estive o dopo la scuola, i maschi venivano, dove era possibile, mandati “a bottega” da qualche artigiano meccanico, fabbro, da quello che aggiustava le biciclette, a fare i garzoncelli perché imparassero qualcosa. Ed in effetti, malgrado la povertà, i padri e le madri li spingevano a queste precoci esperienze di lavoro, non tanto per qualche soldo, ma perché non stessero abbandonati a se stessi in giro, fra un gioco di pallone e l’altro con i coetanei, nell’inutilità, nel pericolo della strada, che poi non si sa che pericoli ci fossero a quei tempi rispetto ad oggi. Generalmente non venivano pagati; i più fortunati rimediavano magari una piccola mancetta settimanale che, per modesta che fosse, già dava loro un senso di dignità e di autonomia e quindi la percezione del valere per se stessi, oltre che per il proprio entourage che aveva dato loro fiducia.
Le ragazze stavano in casa ed apprendevano dalla madre a divenire a loro volta massaie e madri di famiglia. Spesso venivano avviate alla professione di sarta, di camiciaia, di ricamatrice, di magliaia, di parrucchiera; facevano l’apprendistato per anni come “picinina” presso queste lavoratrici artigiane a domicilio, prima di mettersi a lavorare in proprio a loro volta. Anche qui, la finalità non era sempre tanto quella di riprendere la professione, bensì di imparare, di essere occupata a fare, di non stare con le mani in mano. Alla scuola di lavoro delle suore delle parrocchie si lavorava per le missioni, così, oltre ad acquisire una manualità, una capacità creativa, senza sovrastrutture culturali si entrava in contatto con l’altro, il lontano, lo sconosciuto, in modo del tutto gratuito, senza aspettativa di riconoscenza, o di ringraziamento, anonimamente.
Quando, negli anni ’70, in risposta alle lotte di massa e alla diffusione della cultura dei “diritti civili”, si sono creati servizi, strutture sociali gratuite nei vari territori, fra le quali anche le scuole serali, si è generalizzata l’istruzione secondaria superiore. Si è in qualche modo frenato l’apprendistato giovanile, creando una sub-cultura di svalorizzazione del lavoro manuale, considerato una pratica per miserabili, ritardati o ignoranti, a favore del titolo scolastico accademico che, da sé solo, aveva la funzione di “elevare”, di conferire prestigio, potenza e immagine o, per lo meno, l’illusione di essi. Contemporaneamente, si è favorita l’assimilazione senza riserve al modello economico e culturale della classe dominante che faceva deporre la spada, tagliava le unghie, nel senso di uniformare il pensiero, le energie e i sentimenti.
Oltre tutto, tanto più vi è stata la proliferazione di strutture e servizi nel campo sociale, tanto più si è manifestata una specie di “antisocialità”, nel comportamento, specialmente proprio delle nuove generazioni che, nella generalità, sono indifferenti a quello che avviene intorno; passano accanto al loro prossimo senza neanche vederlo o tenerne conto. L’assistenza sociale, peraltro, ha sempre avuto la funzione tacita di controllo politico della emarginazione e della devianza che comporta una sorta di tacitamento, di adagiamento delle coscienze, di accettazione dell’esistente, una vera e propria dipendenza psicologica dei “bisognosi” che costituiscono un sicuro serbatoio di voti per i vari partiti politici. Con la crisi economica in atto, però, le prestazioni dello stato sociale stanno saltando tutte, contemporaneamente all’esplosione generalizzata dei conflitti e delle psicopatologie.
Il processo avviatosi negli anni ’70 del novecento è stato confacente all’organizzazione della società fin che l’economia, in qualche modo, lo ha consentito perché è stata in grado di assorbire questa forza lavoro intellettuale o tecnico-dirigenziale. Successivamente, con l’accelerazione dell’automazione in tutti i settori, dell’informatica, della globalizzazione dell’economia, con la crisi vera e propria delle produzioni industriali tradizionali, che sono fatte a costi molto minori nei cosiddetti “paesi terzi”, a causa dell’arretratezza in cui vivono quelle popolazioni, unitamente alla sovrapproduzione di merci che ha saturato i mercati, la struttura economica del mondo è bruscamente cambiata e, con essa è implosa la sovrastruttura che da essa aveva avuto origine.
Il ragazzo di oggi sa, più o meno coscientemente che, quando sarà proprio costretto a lavorare, farà un lavoro che spesso non lo appagherà, magari mal pagato. Ha passato anni nella scuola e all’Università, dove i programmi, in genere, non sono al passo con il sistema produttivo e dovrà affrontare anni di stage o tirocinio. Cosa ancora più deprecabile, non gli hanno insegnato niente della vita reale, dei meccanismi e delle interazioni delle forze e delle variabili che caratterizzano la società in cui vive e il posto che in essa lui stesso vi occupa. Se è particolarmente intraprendente o fortunato riesce a trovare un posto di lavoro a 800, 1000 euro al mese, o poco più, magari dopo anni di disoccupazione. I “demiurghi” degli Stati architettano lavori inutili e artificiali, temporanei, part-time, precari, in affitto, interinali, di qualunque valenza effimera, o addirittura gratifiche assistenziali per dare ai giovani un po’ di denaro, per alleggerire la famiglia che non è in grado di mantenerli a vita, per evitare lo scivolamento in massa nella micro e nella macro criminalità, che avrebbe costi ancora superiori per la società nel suo complesso.
Ormai, l’asse esistenziale del giovane, oggi si è spostato a 30-35 anni, bene che vada; cioè all’età in cui può aver trovato una sistemazione decente nel lavoro e potrebbe sentirsi in grado di vivere autonomamente e farsi una famiglia sua. La sua evoluzione a divenire adulto economicamente e psicologicamente ha avuto un forzato arresto e purtroppo, molti si adagiano. L’economia reale degli Stati e delle popolazioni, è oggi una valanga distruttrice fuori ogni controllo che produce una disoccupazione giovanile nei Paesi dell’Occidente, Europei in particolare, del 30% di media; in Italia, ultimi dati Istat del 42%. I figli delle classi dominanti si salvano, cioè vengono subito cooptati, indipendentemente dalle loro capacità e dai loro meriti personali, nelle strutture di potere finanziario, economico e politico al fine di perpetuarle familisticamente e dinasticamente. Per tutti gli altri c’è la lotta per la sopravvivenza, per il “vinca il migliore”! O l’emigrazione di massa dei cervelli, cioè di laureati, ricercatori, tecnici diplomati, super specializzati, alla ricerca di fortuna e di dignità in Paesi lontani ancora in grado di dare qualche speranza nella costruzione del proprio futuro. Ultimi dati ISTAT ufficiali: nel 2014 sono emigrati 82.000 giovani italiani per lavorare all’estero; per contro sono arrivati in Italia, sempre secondo fonti ufficiali, quali il Ministero degli interni, 150.000 profughi o clandestini, come li si vuole chiamare, senza arte né parte, che sono a carico completo dei cittadini italiani, già stremati dal crollo dell’economia interna.
Si vive oggi nella menzogna o nascondendo la testa sotto la sabbia, perché già è chiarissimo che la maggior parte dei nostri giovani o ragazzi sono inutili, non necessari alla produzione, non impiegabili in maniera razionale perché l’economia, ormai globalizzata e massimamente tecnologizzata, è in una situazione mondiale di recessione e in un vicolo cieco. In una civiltà in declino, tutte le sue istituzioni perdono di significato ed è così anche per quanto riguarda la scuola che, dall’istruzione di base fino all’Università di massa, è degenerata e scadente. Pur tuttavia, chi riesce a prendersi un diploma o, meglio ancora una laurea nelle tecnologie e professionalità emergenti, ce la fa ancora ad inserirsi nel mondo dell’economia reale, magari dopo anni di precariato.
Le Associazioni dei datori di lavoro denunciano di continuo, chissà se poi è vero o solo propaganda che, nonostante la crisi in atto, manchino sul mercato del lavoro ben centomila ingegneri a vari indirizzi o specialisti nella gestione e amministrazione aziendale. Per contro c’è una vera e propria diffusione pandemica di lauree che non hanno alcun aggancio al mondo reale del lavoro e che finiscono con l’essere solo un appagante attributo personale. Al concorso di miss Italia, trasmesso in TV qualche anno fa, le concorrenti apparivano tutte uguali, sembravano clonate da un modello originale, e quelle fra loro che dichiaravano di frequentare l’Università tutte, senza eccezioni, erano iscritte alla Facoltà di Psicologia!
I giovani “incolti” o la massa mediocre, invece, sembrano non adattarsi a svolgere lavori di basso livello perchè mal pagati o poco gratificanti. Questi servizi sono stati tutti accaparrati , dagli anni in cui l’economia “tirava”, da immigrati cosiddetti extracomunitari che hanno lasciasto i loro Paesi in cerca di una vita migliore. Pur di avere un lavoro dichiarato che consentisse loro di godere delle sanatorie, dei permessi di soggiorno, del diritto all’assistenza pubblica, alla casa popolare e anche di non finire tutti arruolati nella delinquenza organizzata, sono stati disponibili ad essere sottopagati, magari in nero, con tutele previdenziali e infortunistiche pro-forma, particolarmente in certi settori come l’agricoltura stagionale, l’edilizia, la conceria, l’industria conserviera. Fin dagli anni ’90, perfino nel mercato del lavoro domestico, di cura domiciliare o in strutture sanitarie di assistenza agli anziani o disabili non si è più trovato un italiano disponibile. Sudamericani, Ucraini, Filippini, Indiani, Romeni e di altre nazionalità, hanno praticamente coperto tutte le richieste delle famiglie, dei condomini e delle strutture socio-assistenziali. Nella stragrande maggioranza sono donne che, con le rimesse di denaro, hanno praticamente mantenuto e mantengono le famiglie rimaste nel loro Paese. I Cinesi, che non provengono da un Paese “povero”, che anzi oggi è una potenza mondiale, sono egemoni nelle attività commerciali e nella ristorazione.
In pratica, è come se per gli Italiani di un’intera generazione fosse avvenuto un balzo, una frattura che li avesse completamente distaccati dalle esperienze della vita quotidiana dei loro padri, tanto da rimuovere il lavoro manuale, nella illusione che questa agiatezza diffusa durasse all’infinito e che, soprattutto non avesse un prezzo. In realtà le famiglie, più o meno, hanno potuto mantenerli per anni da studenti, precari, in attesa dell’occasione gratificante e vincente. Oggi, a seguito della crisi che va sempre più peggiorando proprio nei settori produttivi che generano il PIL, ci si rende conto di avere allevato, nella generalità, generazioni di giovani incapaci di affrontare i tempi duri, privi di manualità, con scarsa volontà e capacità di adattamento e, contemporaneamente molto egocentrici. Le cause di macroeconomia sono determinanti senza dubbio, tuttavia anche l’elemento umano deve essere tenuto in considerazione se si vuole comprendere a fondo il fenomeno.
Fin che i giovani hanno l’appoggio economico e l’accudimento della famiglia, hanno modo di mitigare almeno in parte le loro insicurezze, le loro debolezze, la loro rinuncia al futuro e, in linea generale, non danno “seccature” politiche e di ordine pubblico. Nella generalità non divengono criminali, non contestano in modo mirato il sistema economico che condiziona la loro vita; in genere sono conformisti, cinici disinteressati alla politica, dei bambinoni irresponsabili che non hanno modelli alternativi a cui riferirsi. Non c’è niente al di fuori del possesso degli oggetti status symbol che li interessi, che dia loro energia vitale necessaria a lottare. Non ci sono modelli comportamentali o esempi significativi, che non siano quelli ancora più destabilizzanti per la loro alienazione e fragilità psichica dei personaggi del mondo della musica rock o delle discoteche.
Però le loro pulsioni sono molto forti; hanno un grande bisogno di conoscersi, di costruirsi una propria identità, di mettersi alla prova. L’inattività, il non avere niente di valido con cui misurarsi, essendo perfettamente assimilati e appiattiti sui modelli comportamentali del loro ambiente, sono tormentati dal dubbio di essere nessuno, nulla, solo un nucleo emettitore di angoscia da rifuggire in qualunque modo. Oggi sono attratti dalla guerra e molti giovani occidentali partono volontari per combattere sui campi di battaglia lontani, schierati dall’una parte o dall’altra, sposando delle cause che sono estranee alla loro storia, tuttavia danno la sensazione di essere in grado di autogestire la propria vita, in pratica di sentirsi vivi, fino a scegliere deliberatamente di morire. Le vie di fuga, imboccate da un sempre maggior numero di ragazzi, sono quelle della droga, dell’alcool e della pratica della sessualità come fosse un imperativo rituale, esibita e mercificata, che originano comportamenti devianti e psicopatologici. Sono passivi e obnubilati nelle capacità di comprensione e rapporto con ciò che accade loro intorno nella complessità della vita sociale. Non ci sono tensioni e back ground culturali e spirituali come fu per la Beat Generation, ma solo assimilazione ad una cultura mortifera.
Nella massa emergono frange di reattivi, di “arrabbiati” che vengono astutamente incanalati dal potere costituito, convogliati nel “centri sociali”, dentro i quali essi pensano di essere i protagonisti, i contestatori che esprimono duramente il rifiuto ai modelli familiari e sociali borghesi, con comportamenti solo apparentemente anticonformistici: droghe leggere a iosa; anzi, celebrazione pubblica della marjuana e primi accesi sostenitori della sua legalizzazione; di quelle pesanti non parlano apertamente; e poi alcool a profusione, musica hard, rock duro. Tanti, tanti slogan martellanti, tante parole d’ordine equivoche di sopraffazione contro i nemici “quelli di destra”, cioè tutti quelli che non sono come loro e che spesso si concretizzano in azioni di violenza vera e propria contro persone e cose. Alla fin fine la loro “ribellione” è solo una scarica di rabbia che non sposta la situazione di una virgola, anzi è perfino confacente al potere, dato che il vero nemico, contro il quale dovrebbero fare fronte comune con “quelli di destra” è il dominio mondiale della finanza transnazionale, dell’apparato militare-industriale, causa dell’annientamento di popoli e individui.
Eppure i politici, i governanti e la magistratura molto spesso li tollerano; anzi li coccolano, ufficialmente perché si dicono sensibili ai problemi giovanili; in realtà cercano di tenerseli buoni perché questi giovani, che hanno un forte potenziale di ribellione, se prendessero coscienza della verità della loro condizione, potrebbero essere veramente destabilizzanti per l’organizzazione mondiale dominante; perciò sono da neutralizzare, da assorbire, blandendoli ipocritamente e tenendoli nel serraglio, massimamente confusi e manipolati, per usarli però come arma provocatoria contro gli avversari politici di turno.
È chiaro che i nostri giovani sono così perché il sistema in tutte le sue articolazioni economiche, politiche, sociali, culturali li ha plasmati così ed essi ne sono inconsapevolmente stati le vittime. Tutto non solo è stato tollerato, ma programmato sotterraneamente dai governi, dei sindacati, dei datori di lavoro, dai mètre-à penser occulti, manovrati dalle agenzie di potere mondiale, che si sono trovati perfettamente in sintonia, nonostante le loro apparenti discordanze di forma riservate al pubblico, avendo ognuno di essi i propri scopi e i propri tornaconti più o meno reconditi.
Il cosiddetto mercato del lavoro, ovvero la generalità della domanda di occupazione nel tempo presente, nel quale le grandi industrie hanno chiuso o delocalizzato da anni, comprende sia le ultimi propaggini del lavoro salariato ancora regolamentato dai contratti collettivi nazionali, in via di esaurimento peraltro, soprattutto però irreggimenta milioni di lavoratori di nuova generazione, post-industriale, che coprono l’arco completo delle diverse, possibili professionalità: dalle più basse di manovalanza, fino alle più qualificate nel campo culturale, medico, scientifico, perfino manageriale. Le cosiddette partite IVA, cioè di lavoro autonomo, sono decisamente maggioritarie in questo campo perché, spesso, sono l’unica possibilità per un giovane di tentare di guadagnarsi da vivere in modo lecito, purtroppo grandemente ostacolato, oltre che da un mercato in recessione, da una tassazione vampiresca.
La gestione del mercato del lavoro dipendente, nel settore dei servizi che è l’unico che ancora sta in piedi, è appannaggio generalizzato delle cosiddette cooperative rosse o bianche, nate all’interno dei partiti della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista ai tempi della prima repubblica, che hanno attraversato brillantemente il cambio di regime. Ora ne detengono il monopolio così che, oltre ad imporre condizioni normative e salariali sempre più indecorose e depauperanti alla massa di disoccupati che aumentano di giorno in giorno, di fatto costituiscono una vera potenza economica che controlla socialmente e politicamente milioni di persone.
In pochi anni i nostri comportamenti si sono omologati a standard di globalizzazione culturale massificata, avendo tagliato i fili che ci tenevano legati alle nostre origini e alle nostre tradizioni. Già nel corso dei secoli erano stati recisi i legami con i nostri dei europei, gli dei dei nostri antenati, le nostre energie primeve; ora, anche i nostri riferimenti fisici stanno per essere spazzati via ad opera del melting pot, voluto dai padroni del mondo; già se ne vedono gli effetti, ma non si ha ancora al proposito una coscienza completamente desta.
Quando viene detto che la molla che ha spinto le prime migliaia di giovani Albanesi che arrivavano qui da noi, stipati su quelle vecchie navi arrugginite, in una sorta di arrembaggio come i pirati alla ricerca del tesoro, era stata la visione dei programmi delle nostre reti televisive nazionali, che presentavano loro l’immagine dell’Italia come l’Eldorado, il Paradiso terrestre, il luogo delle beatitudine; ebbene, non si tiene conto che i nostri giovani, i nostri bambini sono i primi ad essere ingannati, manipolati, violentati nella loro integrità e nella loro evoluzione, nella possibilità di esprimere le loro qualità migliori.
Sono impediti, ostacolati a sviluppare il proprio gusto personale e le manifestazioni più interiori di sé, perché devono essere passivi assorbitori e consumatori di falsi idoli che non corrispondono alla natura reale della vita dei singoli e della comunità nel suo insieme, ma creano solo illusioni e profondi disadattamenti e ne fanno degli adulti privi di identità e problematici che, a loro volta, generano figli ancora più esposti alla patologia e alla emarginazione sociale.
Immaginativamente, l’adolescenza e gli anni che ne seguono, intesi come una iniziazione alla vita, fanno pensare a quella frutta che si compera nei supermercati, esteriormente bella, invitante, nei vassoi incartati con la pellicola trasparente cancerogena, che, da dura ed acerba, immangiabile, diviene subito marcia, senza passare dallo stato di maturazione gradevole e nutriente come dovrebbe essere, di natura, ogni frutto.
La grande ipocrisia è credere, o far credere che gli adolescenti e i giovani di oggi siano un’anomalia, un disturbo, un ingranaggio difettoso di una macchina perfettamente efficiente ed efficace e che perciò non ha bisogno di essere riprogettata.I nostri giovani, nella realtà, sono i pezzi di ricambio solo da utilizzare alla bisogna quando va bene; o addirittura sono utensili fuori uso, o materiale di scarto; ma la struttura e il funzionamento della macchina sono assolutamente al di sopra e al di fuori di qualsiasi valutazione critica in merito alla sua qualità o addirittura alla sua ragione di essere.
Se solo ci si sofferma a riflettere spassionatamente sulle opportunità di crescita evolutiva, di riconoscimento e di apprezzamento di sé, quali possibilità sono lasciate ai giovani per ricercare la loro propria via, la loro propria verità, per esprimere la loro parte divina?
Nella storia dell’attività umana generalizzata, il lavoro artistico e artigianale stimolava la creatività, avendo un inizio e un compimento; permetteva la elaborazione, la trasformazione della materia e favoriva conseguentemente la maturazione concettuale della sintesi: immaginazione-ideazione, progettazione, esecuzione con tutti i vari passaggi creativi, manuali e di adattamento ad ogni fase della realizzazione. Suscitava l’impegno, l’attenzione, la gioia e la soddisfazione della riuscita, conciliando molto spesso il lavoro intellettuale con quello manuale, legati dalla volontà, così che l’essere umano si potesse sviluppare nella sua interezza.
Ebbene, quando l’artigianato è stato soppiantato dalla produzione industriale, l’uomo da allora è divenuto solo un’appendice della macchina utensile; deve solo premere un pedale, schiacciare un bottone, stare alla catena di montaggio ad un ritmo frenetico, a “cottimo”, cioè pagato sulla quantità di lavoro che riesce a fare all’ora, per anni e anni, completamente alienato, diviso dalle sue potenzialità più elevate, negato nella sua sostanzialità di creazione e di pensiero.Il lavoro manuale robotizzato, ossessivamente parcellizzato e ripetitivo, inaridisce l’anima dell’uomo e lo rende simile ad un qualsiasi ingranaggio meccanico; mentre il lavoro creativo che racchiude in sé il sentimento, può divenire cura, arte, comunicazione profonda.
Tuttavia Carlo Marx aveva dato un giusto valore al lavoro salariato industriale, alla trasformazione della materia e al progresso umano ad esso connesso che, sia il singolo, sia la classe operaia nel suo complesso, potevano fare da protagonisti. Nella costruzione di una economia, che si intrecciava strettamente alla vita collettiva, i lavoratori della fabbrica avevano coscienza di sé, di essere utili, cioè che la loro vita aveva significato proprio nell’avvicendamento progressivo ed evolutivo delle generazioni che, in ogni tempo e in ogni luogo, generano la storia umana. “L’è una roda che gira” recita un modo di dire del dialetto lombardo nel significare e nel giustificare la vita di ognuno e della sua funzione, anche inconsapevole, nel suo passaggio sulla Terra.L’organizzazione centralizzata e burocratizzata degli Stati attuali, in tutte le istanze della vita delle comunità e dei singoli e il dominio totale dell’economia nella vita dei popoli, hanno tolto ogni margine di autonomia, di inventiva e di creatività al singolo, il quale può essere solo sottomesso, più o meno coscientemente, ed adattarsi ad essa morendo come essere “unico” giorno per giorno, già dalla nascita. Attraverso il processo di socializzazione, cioè di crescita e di apprendimento a vivere, il bambino assimila i modelli comportamentali, le energie, i valori significanti dall’ambiente in cui vive e da esso viene plasmato a sua immagine e somiglianza.
Quasi sempre lo sviluppo delle sue inclinazioni naturali – la sua parte più autentica, animica – viene impedito da questi schemi precostituiti che ne ostacolano, se non addirittura soffocano, la potenzialità creativa. L’arte dell’educazione consiste proprio nel preservare e sviluppare queste potenzialità in ogni fase dello sviluppo; ma la famiglia, che è la base dell’aggregazione sociale e della acculturazione è già a sua volta plasmata, già perfettamente simbiotizzata, essendo una emanazione diretta di quella condensazione storica e sociale alla quale appartiene totalmente. A onor del vero si deve riconoscere che là, dove ancora esistono famiglie equilibrate, per ora, non tutto è perduto.
Oggi, bambini intelligenti e vivaci, particolarmente predisposti alla nascita alle esperienze di vita per i tempi nuovi del 3° millennio, i cosiddetti bambini indaco vengono socializzati, “uccisi” nella loro individualità più autentica, e trasformati in giovani inutili, cinici, persi o chiusi in trappola, precocemente rinunciatari, sia dentro che fuori il sistema organizzato.O meglio, si osserva una specie di exploit precoce delle capacità, delle potenzialità nei primi anni di vita, nell’infanzia, che si spengono a mano a mano che la cosiddetta socializzazione va avanti; svuotandoli, uniformandoli nella mediocrità. E’ come se bruciassero in pochi anni quel processo di costruzione e di maturazione del SE’ che fino a qualche centinaio di anni fa, ma anche meno, andava avanti lentamente con delle vere e proprie tappe biologiche, cicli psicologici e di passaggio alle varie fasi della vita umana. Si può dire che sia l’effetto concreto, tangibile delle teorie sulla Accelerazione di questa Era verso la sua fine, come se non ci fosse più il tempo della storia collettiva e individuale. Si consuma tutto e subito, si usa e si getta con la velocità di attrazione di un buco nero.
Per le persone anziane, come me, nate a cavallo della 2° guerra mondiale, ciò che avviene ora nella società e nelle famiglie è un vero e proprio stravolgimento di valori, di tradizioni e di identità rispetto alla loro esperienza di vita. In 70/80 anni hanno attraversato fasi acceleratissime di cambiamento materiale e spirituale, spesso solo obbligati ad adeguarvisi, senza neanche comprenderle.
Oggi la riproposizione dei modelli del passato non è più possibile; sterili i paragoni e i rimpianti poichè la scena del mondo è radicalmente cambiata e divenuta ancora più inaccessibile alla comprensione e al controllo della comunità umana nel suo insieme. Lo Spirito del Tempo è cambiato; noi siamo sopravvissuti al nostro e rappresentiamo una testimonianza storica e antropologica di aggregazione in una certa fase della civiltà umana.
Con lo sviluppo acceleratissimo e il dominio ad ogni livello della tecnologia informatica, delle armi spaziali cibernetiche, della geoingegneria con variazioni mortali del clima, della biogenetica, l’intelligenza artificiale e altro e altro ancora, che generano processi di morte fisica e dell’anima, a questo stadio, sembra che lo scopo ultimo sia quello di soppiantare l’essere umano biologico, affidarlo alla Natura, anch’essa resa nemica. I problemi che le nuove generazioni devono affrontare sono infinitamente più gravi di quanto lo siano stati quelli dei nostri tempi, che ancora potevano essere mediati dalla libertà e dalla volontà umane.
Per ciò che ci riguarda più da vicino, la civiltà bianca europea è nella fase di ultimo declino. Nascere, brillare, sparire è una legge cosmica che vale per la singola individualità, per gli Imperi, per le stelle, fino alle galassie. Consideriamo poi che, nella sua fase dominante, per ciò che ha procurato di male al resto del mondo, si sia fatta un karma negativo che ora è chiamata a pagare.
Miliardi di esseri umani di altri continenti, che tuttora sono costretti a vivere sotto le bombe, nell’indigenza materiale e morale, sempre dovuta all’egemonia predatoria e guerrafondaia della civiltà occidentale, potrebbero divenire o stanno già divenendo, i protagonisti di una nuova fase storica. Essi sono spinti all’azione non solo dal bisogno ordinario, ma da una fortissima energia vitale potenziata dalla volontà e dalla capacità di sopravvivenza nelle condizioni di guerra, distruzione e fame permanente.
Tanto questa energia di vita si spegne nei nostri giovani che sono stati deliberatamente isteriliti e devitalizzati, tanto più si potenzia, anche in forme aggressive, nei poveri e sfruttati del mondo che già stanno cambiando i rapporti di forza con la leadership occidentale, a guida israelo-americana con tutti i suoi satelliti.
Non si è proprio in grado di immaginare un possibile futuro, neanche nel breve periodo, in quanto siamo veramente nel bel mezzo di una guerra fra i mondi, anche se non sappiamo o non vogliamo prenderne atto. I politici poi, che parlano solo di cose spicciole, ordinarie come al bar o in portineria, sono inaffidabili e fors’anche in mala fede.
In realtà l’evoluzione, l’involuzione o addirittura la sparizione dell’Umanità o di parte di essa, non dipendono dal libero arbitrio umano, bensì da energie cosmiche, extrafisiche. L’uomo propone e dio dispone. A noi, che abbiamo potuto maturare una certa consapevolezza, non resta che confermare la volontà di onorare e benedire la grande famiglia umana alla quale,vivi o morti, sempre apparteniamo.
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