LE MIE PRIME ED ULTIME ELEZIONI

LE MIE PRIME ED ULTIME ELEZIONI

Le ultime elezioni del 4 marzo scorso hanno risvegliato in me il ricordo delle mie prime, avvenute nel 1964, Avevo 22 anni e votavo per la prima volta, dato che a quei tempi, si diveniva maggiorenni a 21.  Doppia esperienza sia da elettrice, sia da scrutatrice.  Il mio iniziatore era stato lo zio Alfonso, fratello di mio padre, mio padrino di battesimo che, per il resto della sua vita da quel lontano 1942, non aveva mai più rimesso piede in una chiesa, neanche da morto.

In quell’anno 1964 si era presentato un nuovo partito di sinistra lo P.S.I.U.P., ovvero Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, quasi completamente costituito da fuoriusciti del Partito Socialista  Italiano, segretario Pietro Nenni. Per la prima volta dal dopoguerra, nel 1963  Aldo Moro, democristiano, sperimentò il primo governo di centrosinistra, dando qualche poltrona al PSI, ai Socialdemocratici di Saragat e  al Partito Repubblicano di Ugo La Malfa.

Nel PSI si era creata una spaccatura fra i dirigenti che vedevano in quella nuova prospettiva la possibilità di sottrarsi all’egemonia, se non proprio sottomissione, al più grande PCI che risaliva al famoso Fronte Popolare del 1948, anno in cui le masse lavoratrici, ignare degli accordi di Yalta, si erano illuse che le sinistre sarebbero andate al governo dell’Italia.  I filocomunisti, invece, non accettarono quella svolta a destra e dettero vita ad una scissione, allo PSIUP, per altro sigla originale  del PSI post-bellico,  che accolse anche gli scontenti  residuali del PCI che non avevano mai approvato l’intervento armato dell’Unione Sovietica per sedare con i carri armati la rivolta popolare in Ungheria del 1956.

Lo zio Alfonso, come più o meno tutti nella famiglia di mio padre, morto già da sei anni,  erano socialisti di fede, ma non militanti, tranne lui che, essendo scapolo e restio ad ogni legame, “marelot”, come si dice in milanese, dedicava corpo e anima alla passione politica.  Fu uno dei fondatori e credo anche segretario per qualche anno della sezione di Sesto San Giovanni, che aveva assolutamente bisogno di attrarre ed evangelizzare nuovi simpatizzanti.

Io ero subito stata la discepola predestinata, la prediletta, non tanto per la parentela, bensì perché lo zio, che aveva vissuto a casa nostra nell’immediato dopoguerra per qualche anno, sapeva della passione che, fin da bambina, avevo avuto per i comizi che si svolgevano nella piazza e i cui contenuti mi davano molto da pensare, nonostante l’età infantile.  Il terreno era stato silente per anni, ma denso di humus e quanto mai fertile: era giunto il momento del debutto.

Per la verità, neanche nel ricordo di oggi, mi ritorna in mente se fossi stata consapevole o ignara dei termini della contrapposizione ideologica che aveva originato il tutto; era stata sicuramente l’autorevolezza dello zio a farmi schierare e che, in un certo modo, mi aveva valorizzato, avendomi proposto come scrutatrice.

A quel tempo eravamo tutti più vitali, più istintivi, primitivi,  più identificati nel partito di appartenenza che si contrapponeva in modo duro e puro agli avversari, anzi nemici; però nel quotidiano questi contrasti erano più sfumati,  genericamente nel collettivo, piuttosto che nel personale.  Invece, subito da quella prima volta, mi ero accorta che, nel seggio elettorale, vis-à- vis, ci si guardava l’uno con l’altro con diffidenza, se non proprio in cagnesco, magari fra persone del quartiere, vicini di casa, con i quali i rapporti erano se non di amicizia, di civile educazione. Lì saltavano i confini del “socialmente corretto”, per parafrasare un detto che va di moda oggi e chi non era con te era sicuramente contro di te, pronto a fregarti, per cui la miglior difesa era l’attacco.

Già mia madre era sempre stata un’anticomunista viscerale, però fino a quel momento, io  mi ero sentita socialista più per tradizione familiare, che per l’avere approfondito le la conoscenza ideologica.  Certo che in quell’occasione  mi era balzato agli occhi come la competizione, vissuta in modo aggressivo ed esclusivista, spazzava via ogni rapporto umano, ogni empatia.

All’apertura delle urne, avevo avuto diverse sorprese. Le schede immesse erano stratiformi, ovvero sopra ogni strato, sempre maggiormente consistente, di votanti di sinistra PCI, PSI, PSIUP, ve n’era uno più sottile DC e qualche PLI in corrispondenza della fine delle messe della vicina parrocchia e lì, con un po’ di attenzione, era facile individuare i “destri”, generalmente bottegai del quartiere e beghinette dell’oratorio.

L’altra sorpresa, in verità sgradevole e ansiogena per me, era stato che le schede annullate, purtroppo, riguardavano tutte quelle che avevano la croce su due simboli PCI e PSIUP; una buona metà dei voti validi per il partito che rappresentavo, dal che avevo capito che l’ignoranza e la confusione in quell’area regnavano sovrane.

Da neo-tesserata, avevo iniziato a frequentare le riunioni in sezione, una sera alla settimana. I compagni erano tutti uomini  avanti con gli anni, almeno dai 50 in su ed io li trovavo tremendamente deprimenti, sempre a dire le stesse cose, alla fin fine era solo una noia e una perdita di tempo per me perché mi sembrava di non imparare niente di nuovo, però mi sentivo in soggezione.

Qualche anno dopo mi ero iscritta all’Università di Trento, anzi all’Istituto Superiore di Scienze Sociali, nato proprio in quegli anni, perché vi si poteva accedere anche con il diploma di ragioneria e la frequenza non era obbligatoria, però era sempre a 300 chilometri di distanza. Avevo un lavoro già impegnativo e il dover studiare da autodidatta, “alla cieca”, con scarsissimi rapporti con la facoltà e i professori, mi aveva complicato parecchio la vita, ma mi aveva anche dato l’occasione per sganciarmi dagli obblighi di partito; non avevo più tempo, dovevo studiare.

Nei 5 anni di interazione con la facoltà a Trento avevo anche incrociato di sfuggita  Mauro Rostagno, che era il responsabile nazionale dei giovani dello PSIUP, l’unico giovane che io personalmente avessi incontrato nel partito che mi sembrava fosse composto solo da attempati e, naturalmente, la sua brutta fine anni dopo in Sicilia, vittima della mafia, mi aveva molto scosso. La stessa di Peppino Impastato.

Non avevo rotto con la sezione, continuavo ad essere iscritta; anzi, ogni tanto, venivo “ripescata” per qualche onere di rappresentanza che, da un lato mi pesava, dall’altro mi apriva gli occhi, in pratica era anche una scuola di formazione politica. Il contenzioso era sempre stato quello, dall’inizio alla fine: il rapporto di subalternità o sottomissione vera e propria al PCI.  Eri  la spalla silente che doveva solo alzare la mano, si o no a comando, anche se, ufficialmente, qualche differenziazione politica c’era, ma che, in sostanza, nei confronti di base, nei territori veniva mortificata.

Per il mio carattere questo comportamento rituale era difficile da accettare e spesso prendevo l’iniziativa, non prevista dal protocollo, di dire qualcosa, oppure addirittura di non alzare la mano e di astenermi. Devo riconoscere che i compagni della sezione tifavano sempre per me, in qualche modo li riscattavo, anche se l’energia che si respirava era piuttosto simile alla cosiddetta “sindrome di Stoccolma”.

Nel 1972, in occasione delle elezioni, il Partito Socialista di Unità Proletaria non raggiunge il quorum per entrare in Parlamento e, data la sua storia, non poteva che finire così. La sua dirigenza centrale ne decise lo scioglimento, proponendo tre opzioni: confluenza nel PCI, confluenza nel PSI o astensione, rifondazione del partito

A livello nazionale prevalse la terza, ovvero la ricostituzione del partito; anche nella mia sezione, nella quale gli unici due dissidenti eravamo stati lo zio Alfonso ed io: lui votò e confluì nel PCI ed io che mi astenni, per chiuderla lì, anche a livello personale.

I tempi, dal 1964 erano decisamente cambiati; c’era stata l’esplosione del ’68, anzi  si era nel pieno della strategia della tensione; i movimenti spontaneisti della nuova sinistra avevano già disconosciuto l’egemonia comunista dell’Unione Sovietica, a seguito della primavera praghese e quindi del PCI, a favore del modello cinese o di indipendenza colonialista,  per non parlare del movimento femminista e della cosiddetta liberazione sessuale che avevano scardinato, a torto o a ragione, i dogmi culturali e sociali in essere. In verità, io già simpatizzavo per l’area spontaneista, più affine al mio temperamento e consideravo chiusa l’esperienza partitica, anche perché avevo capito nella pratica in cosa consistesse veramente il famoso centralismo democratico che non era proprio nelle mie corde.

La ricostituzione del nuovo PSIUP venne pubblicizzata attraverso un raduno di rappresentanti delle varie sezioni italiane in un teatro di Roma in uno dei primi giorni di luglio del 1972, presieduto dai personaggi politici che più si erano impegnati nella sfida. Anche la sezione di Sesto, che al 98% aveva votato per la continuazione del partito, avrebbe dovuto mandare un delegato, ma nessuno ci voleva andare perché troppo faticoso per persone non più giovani e con problemi di salute, che avrebbero dovuto passare due notti consecutive in treno.

Così, come era sempre avvenuto in passato, quando c’era da muoversi, i compagni avevano puntato sulla mia disponibilità, in quanto giovane e libera da impegni familiari; lì per lì avevo rifiutato perché mi sembrava un non senso per me che avevo fatto una scelta diversa, poi all’ultimo, avevo deciso di andare perché si trattava comunque di un’esperienza nuova e magari interessante.

Da Milano e hinterland eravamo partiti in tredici, dodici uomini e solo io donna. Naturalmente ero stata corteggiatissima, non perché fossi una vamp, semplicemente non avevo competitrici; ero molto gratificata non tanto dall’essere oggetto di desiderio, quanto dall’accogliere il giusto, secondo me, deferenziale tributo al femminile. In quella occasione conobbi il compagno con il quale, dopo ben cinque anni di silenzio e perdita di vista reciproci, avrei iniziato una convivenza con successivo matrimonio ancora felicemente in atto.

Qualche anno ancora avevo militato nel nuovo PSIUP, un po’ dentro e fuori; anzi avevo anche fatto la presidente di seggio, in occasione del referendum sul divorzio, per via della diaria che, tale e quale il vecchio, avevo dovuto anticipare. Il colpo di grazia che sancì il distacco definitivo fu l’entrata nel partito del gruppo scissionista del PCI  de “Il Manifesto” che infatti aggiunse alla sua sigla originaria  “per il comunismo”, proprio nel 1974.

Questi personaggi erano di una supponenza intollerabile, degli estremisti stalinisti per cui veramente chi non era con loro, non si lasciava dominare, era un destro, ignorante e magari fascista.  Sul nuovo PDUP agirono proprio come le locuste, fecero il deserto; in pratica le sezioni si svuotarono dei militanti storici, in minima parte rimpiazzati da un nuovo soggetto politico: “I cristiani per il socialismo”, doppiamente esaltati dalla doppia ideologia, che in realtà, aveva la stessa fonte originaria, il pensiero monoteistico. Nel 1984,  il PDUP per il comunismo, ritornò alla casa del padre, cioè al PCI.

Intanto gli eventi della storia andavano avanti e, nella vasta area che si definiva genericamente “sinistra” c’erano tanti frazionamenti, schieramenti diversi, l’extraparlamentarismo era prevalente.  Io, per qualche anno, avevo “bazzicato” l’area spontaneista, più per simpatia che per ideologia, trovavo scanzonati, divertenti quei giovani ragazzi che, in qualche modo, scuotevano anche le mie rigidità comportamentali e, in un certo qual senso mi ridavano un po’ di spensieratezza. Qualche anno dopo però sarei approdata all’area dell’autonomia operaia e lì c’era stato poco da divertirsi.

Da quel tempo ad oggi, nonostante sia, per temperamento, una poliedrica ecumenica, ho conosciuto un solo lettore del giornale “Il manifesto”, un abbonato, un amico abruzzese che mandava anche l’obolo ogni volta che la redazione annunciava la chiusura per motivi economici. Come per “ Il foglio” di Ferrara; mi ero chiesta per anni chi lo finanziasse, ora l’ho saputo: il contribuente italiano, a sua insaputa depredato, con i fondi per l’editoria. La grande, storica Unità, fondata da Antonio Gramsci, è fallita ed il suo ripianamento è costato una prima volta oltre 100 milioni di euro, ma è in profondo rosso ancora.  Del resto, queste ultime elezioni hanno ben evidenziato la colata a picco del PD, con l’ex PC minoritario perdente, e la  ex DC Margherita nella stanza dei bottoni e più che mai trasformista; perciò non possiamo essere sicuri di non morire geneticamente democristiani.

Da almeno 35 anni  mi sono ritirata nel mio privato, assistendo dapprima con grande dispiacere all’involuzione degenerante della politica, anzi della sua larva,  via via sostituita da un profondo distacco emotivo ed ideale. Tuttavia, pur nel disincanto, ad ogni tornata elettorale, ero andata a votare per quel partito che, al momento, in rapporto alla situazione generale, mi era sembrato il meno peggio. Non più per una ideologia o un’altra, né per un ideale morto e sepolto, bensì per una idealizzazione, una specie di stato dell’anima che va oltre il contingente, un collegamento simbolico alle generazioni storiche che hanno lottato e pagato con il sangue per la conquista di spazi esistenziali di   dignità e libertà, ma anche per tutti coloro i quali, anche oggi, in buona fede credono o si illudono di poter cambiare.

Il 4 marzo 2018 ho votato  per chi, secondo me, si era più esposto, aveva corso più rischi, aveva dimostrato passione, non solo ambizione o retropensieri; un riconoscimento all’impegno personale e alla buona  volontà, indipendentemente dai risultati concreti che avrebbe potuto raggiungere.  Quando le popolazioni occidentali in genere, europee in particolari, erano ancora vitali, si stimava che solo un 10% di esse fosse al di sopra o al di fuori della massa informe e ignava, come somma complessiva delle varie manifestazioni, potenzialità e sentimenti umani, una sorta di avanguardia culturale, sociale e politica. Ora non si sa se la percentuale sia rimasta quella storica, ma personalmente, credo che vada considerata se portatrice di valori e di energie  metafisiche, ben oltre le etichette e le colorazioni.

E visto che siamo nella Settimana Santa, voglio ricordare l’Apocalisse o Rivelazione dell’apostolo Giovanni, 14:15 (Il Cristo rivolto all’angelo della congregazione in Laodicea) “Conosco le tue opere, che non sei né freddo, né caldo, sei tiepido e per questo ti vomiterò dalla mia bocca” Cioè, simbolicamente è qui rappresentato quel 90% che non fa il male, ma neanche il bene, continua a delegare le sue responsabilità civiche;  si grogiola   nella passiva  materialità e nelle sue sicurezze, nella sua ignavia, nella sua aridità di spirito e di amore e non può che raccogliere ciò che ha seminato. La dignità e la consapevolezza hanno un prezzo da pagare, alto!

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